di Stefano Ferraris
A cavallo tra gli anni ’80 e ‘90 usciva regolarmente Scandere, un inserto annuale di Monti e Valli, rivista del CAI Torino, ricco di articoli interessanti. La sua rilettura, insieme a quella del libro sulla storia dei primi 50 anni della Sucai (1951-2001), mi ha permesso di riflettere su quegli anni ormai lontani. Parto quindi da quanto scriveva Marco Faccenda in tale libro, ovvero che all’inizio degli anni ’90 “la Scuola implode”. E ancora: “improvvisamente viene a mancare un’intera generazione d’istruttori”: le frasi suonano bene nel loro essere esagerate, ma credo sia ora interessante cercare di capire cosa veramente sia successo in quegli anni e il motivo della flessione nel numero degli iscritti, che in realtà iniziava già sul finire degli anni ‘80.
In quegli anni lontani si verificava prima di tutto una maggiore ripartizione degli iscritti con le altre scuole della Provincia di Torino. Infatti il numero delle tessere CAI a livello italiano negli anni dal 1985 al 1991 continuava a salire, mentre quello del CAI Torino tendeva pian pianino a scendere. La diversificazione a vantaggio delle sezioni dei comuni intorno a Torino era anche dovuta al fatto che in quelle sedi la tessera annuale del CAI era assai meno costosa. Tali scuole si stavano strutturando bene e infatti, ai corsi per istruttore regionale, avevo conosciuto parecchi nuovi e bravi loro istruttori. Scriveva infatti Enrico Camanni su Scandere 1988, riguardo a Torino: “le scuole della sezione negli ultimi anni hanno registrato un calo di iscrizioni e difficoltà di ricambio del corpo istruttori”. E ancora “quella crisi di identità che sembra scongiurata in molti centri della provincia (…) sta affliggendo le due accademie più accreditate del Piemonte” ovvero Gervasutti e Sucai.
Invece la sua previsione che tale crisi fosse un preludio “dell’inevitabile trasformazione in senso professionale dell’insegnamento didattico connesso alla montagna” non mi sembra si sia verificata.
Sebbene ci siano guide che spesso organizzano corsi di scialpinismo e le ciaspole abbiano allargato la frequentazione della montagna invernale a una platea molto ampia, a vantaggio spesso di accompagnatori professionisti, la Sucai ha tenuto bene. Oggi, con le iscrizioni per via telematica, occorre cliccare entro un minuto dall’apertura, se non si vuole restare fuori fino all’anno successivo.
La reazione della SUCAI alle nuove sfide.
Visto il suddetto graduale decremento di iscritti nella seconda metà degli anni 80, la Scuola nel 1990 operava la scelta di limitare il numero massimo d’iscritti a 90.
Mica pochi, se si pensa che in ogni uscita vi erano anche ovviamente gli istruttori e i sempre numerosi distintivati, ovvero coloro che hanno guadagnato il diritto di iscriversi alle gite grazie all’aver frequentato con successo un certo numero di corsi. Sempre nel 1990 si reintroduceva un’uscita preliminare di sola discesa, al fine di valutare il livello tecnico dei neo-iscritti. Si voleva evitare di trovarsi d’inverno in montagna, magari a poche ore dal calare delle tenebre, con una persona non in grado di tornare verso valle. Si arrivava fra l’altro dall’esclusione, l’anno precedente, di parecchi istruttori dall’organico della Scuola, rei di esser stati poco presenti durante il corso. Operazione che creò molti malumori e che forse non è più stata ripetuta.
Ma vediamo di inquadrare ulteriormente cosa stava succedendo su un orizzonte più ampio. Ci diceva Leonardo Bizzaro su Scandere del 1992 che l’anno precedente Reinhold Messner “invitò a mettere una sbarra ai terreni di gioco più alti”, in altre parole vi era un autorevole richiamo alla regolamentazione dell’accesso all’alta montagna. E’ un tema che si continua, di tanto in tanto, a dibattere. In quegli anni una certa sensibilità per l’ambiente stava crescendo, e soprattutto per motivi di sicurezza altre scuole come la famosa Righini di Milano avevano già eliminato da tempo i grandi grupponi.
Un altro problema era la mancanza di neve. Diceva sempre Bizzaro che ”file senza fine di automobili si ripetevano alla base dei pochi itinerari scialpinistici effettuabili”. E aggiungeva che in inverno “i direttori delle scuole si sono affannati a trovare mete alternative per le uscite dei corsi, inseguendo la poca neve in qualche valle nascosta”. E, come anche oggi, “la neve artificiale (…) ha salvato un comparto altrimenti compromesso“, ovvero quello dello sci su pista …“in attesa che abbia fine questo ciclo meteorologico”…!
Abbiamo visto che non è un ciclo, purtroppo, e il cambiamento climatico condiziona in modo particolare proprio le pratiche che usano la neve senza trucchi artificiali, come lo scialpinismo, mentre lo sci su pista aggira spesso l’ostacolo creando neve artificiale.
Un nuovo elemento di difficoltà per la Scuola era anche il crescere, da un lato, delle responsabilità legali sulle spalle dei direttori e, dall’altro, degli impegni amministrativi per gli interi gruppi di direzione. In questo caso sono perfettamente d’accordo con Marco Faccenda che diceva, sempre nello stesso libro, che si combatteva la “lotta con l’alpe di carta”! Espressione felice e al contempo molto veritiera. Si diventava infatti sempre più preda di regolamenti e dichiarazioni, come se fare qualche chilo di autorizzazioni, e mettere un po’ di istruttori nazionali invece che regionali o sezionali dovesse automaticamente incrementare la sicurezza. Non è certo un’attività a rischio zero, sempre che ne esistano, la frequentazione della montagna in un periodo dell’anno dove la neve, le giornate corte e la meteo rendono tutto assai imprevedibile e rischioso,. Ma il mitico ‘nulla osta’ al CAI veniva prima di tutto. Scriveva Ezio Mentigazzi su Scandere, in questo caso a proposito dell’intera sezione di Torino del CAI di cui era Presidente, che, “con forme organizzative sempre più assillanti, si perdono di vista proprio le attività primarie per cui erano nate le sezioni CAI”.
Sempre a questo riguardo, durante i suoi tre anni come direttore della Scuola, Giuseppe De Donno analizzava, ancora una volta su Scandere, gli impegni sempre più pressanti dal punto di vista organizzativo.
Rifletteva anche sul bilanciamento auspicabile fra l’aspetto tecnico e quello sociale di una grande scuola come la Sucai.
Le gite di quegli anni.
Emblematica per l’aspetto “sociale” fu la gita che si svolse a Saint Veran del 1989, durante la direzione di Giuseppe. Si trattava dell’uscita di quattro giorni di durata (che è tradizionalmente quella più lunga e importante di ogni anno). Eravamo sì nel comune forse più alto d’Europa, ma risiedevamo nelle case del paese, quindi non in un rifugio in mezzo a ghiacciai nebbiosi come capitava invece spesso in quelle uscite. Complice anche il bel sole, una quattro giorni molto rilassante e “sociale”. Su Scandere del 1989, Lorenzo Bersezio descriveva proprio le gite di quella quattro giorni. Non a caso Lorenzo era nel gruppo di direzione in quell’anno. Nell’articolo accennava a quei giorni a Saint Veran con la Scuola e al “suo rumore”.
L’aspetto tecnico sarà riequilibrato l’anno successivo, ultimo di Giuseppe direttore, con il percorso di un tratto della mitica “Chamonix-Zermatt”, salendo Eveque, Pigna d’Arolla, e Mont Blanc de Cheillon. Con questa supergita, il testimone di direttore passato al sottoscritto tornava ad essere rivolto verso l’alto.
Iniziava fra l’altro l‘era dell’immagine, prima di Instagram, con una grande fotografia a occupare il volantino pagato da uno sponsor del corso e studiato con Federico Bollarino. Il primo anno riuscivamo dapprima ad abbinare in un fine settimana la Punta Rossa della Grivola, col primo corso, ad una traversata da Cogne ad Aosta, con discesa dalla vetta dell’Emilius compresa, con il secondo corso. Sempre con l’aiuto dell’esperto ex direttore, e in questo caso membro della direzione, Guido Vindrola, la quattro giorni vedeva in Austria primo e secondo corso salire niente meno che punte come la Dreizinnen, il Piz Buin e il Silvretta. Lì mi capitava di far arrabbiare qualche istruttore nazionale (e non) per il fatto di percorrere con un centinaio di persone la cresta del Silvretta, opportunamente e preventivamente attrezzata di corde fisse da Alberto Morino e dal sottoscritto. Cresta peraltro in quel giorno del tutto priva di cornici e accumuli di neve. Penso che tali formazioni sulle creste costituiscano il più grande pericolo in montagna. Qualcosa che non guarda il curriculum degli alpinisti. Sono morti a causa loro tanti esperti, da Patrick Berhault, istruttore dell’Ecole Nationale di Chamonix, al tre volte campione del mondo Stephane Brosse. Nel mio secondo e ultimo anno da direttore, infine, la Sucai andava sulla Cima d’Arbola e, nella gita successiva, su Roche Faurio e Dome de Neige des Ecrins. Negli anni successivi tornava, dopo molti anni, ad essere direttore Mario Schipani. Fra le gite di quei cinque anni si ricordano Boshorn, Albaron, Tersiva da Gimillan, Similaun, Piz Palu, Bernina, San Matteo, Palon de la Mare, traversata del Gran Zebru.
L’amicizia continua.
Occorre infine osservare che, nei soli due anni 1994 e 1995, concluderanno il loro periodo come allievi proprio una gran parte di coloro che permetteranno il proseguimento della scuola qualche anno dopo, ovvero Paolo Gai, Saverio Ghiotti, Roberto Mazzola, Maria Cristina Rosazza, Andrea Fornelli e Gianmaria Grassi. Anche loro vivranno al meglio l’avventura di dirigere i corsi della Sucai. Proprio come era successo a me nel ‘90 e nel ’91, con un gruppo molto coeso e omogeneo come età a costituire la direzione. Andare a provare le gite il sabato e trovarsi il venerdì sera era sempre un vero piacere con Guido, Stefano, Riccardo, Michi, Fax, Marco, Mario, Gavino e Francesco.