di Carlo Crovella
Il consolidamento dell’attività sucaina in una vera e propria Scuola (divenuta Nazionale dal 1968) e l’impulso giunto, all’inizio degli anni ’70, da uno dei tanti rinnovamenti generazionali hanno preparato il terreno per la successiva fase che si estenderà per una quindicina d’anni fino al 1990.
Alla metà dei ’70 il nuovo gruppo trainante era incentrato, come sempre nell’esperienza sucaina, su una molteplicità di individui, ma alcuni nomi emergevano con rilievo: Gaspare Bona, Alberto Mazzarelli, Ernesto Wuthrich, i fratelli De Marchi. Nel corso degli anni immediatamente successivi, fino ad affacciarsi al decennio degli ‘80, altri nomi si aggiunsero, molti anche di notevole spessore sia organizzativo che tecnico. Non potendo citarli tutti, ci si limita ai fratelli Camanni (Enrico e Marco) e ai fratelli Giorda (Carlo e Andrea).
Questa fase, da me vissuta con particolare intensità (dapprima come allievo e poi, dopo l’80, come istruttore e organizzatore), è caratterizzata da diversi risvolti, tutti importanti, ma i più eclatanti sono due: l’espansione numerica, che porterà la Scuola ai massimi storici in termini dimensionali, e l’accelerazione tecnico-didattica.
In termini dimensionali, alla metà dei ‘70 iniziò un lungo periodo in cui la SUCAI si presentava come un vero “esercito”: alla uscite invernali si contavano quattro pullman da 50 posti più alcune auto (circa 215-220 partecipanti), mentre nelle uscite primaverili, in rifugio e su ghiacciaio, il gruppo si riduceva leggermente, ma rimaneva sui 150-170 partecipanti.
Per iscriversi al corso annuale, gli allievi si accalcavano lungo la scala di Via Barbaroux, andando a prendere il posto anche ore e ore prima. Era infatti previsto un numero massimo di allievi (a volte 120, a volte 140) e si rischiava di restare fuori.
In parallelo l’organico istruttori era costantemente nutrito dall’afflusso di nuovi aiuto-istruttori generati dai nostri stessi corsi. Vi era quindi equilibrio fra la consistente domanda (numero allievi) e l’adeguata offerta (numero istruttori).
La Scuola, pur nel turn over delle presenze, poteva sempre contare su un’adeguata presenza di istruttori, tra l’altro tutti preparati a puntino sia tecnicamente che didatticamente.
Emerse in maniera ormai indiscutibile il concetto che, per essere istruttori, occorreva non solo saper andare in montagna, ma anche saper insegnare con efficacia e uniformità. Questo principio venne affinato incidendo a fondo sulla preparazione degli istruttori (anche attraverso aggiornamenti sempre più sistematici e puntuali) e, a cascata, sui nuovi allievi che in molti casi sarebbero diventati gli istruttori del domani.
Specie durante gli anni ’80 la Scuola accentuò una caratteristica peculiare (già presente anche in passato), rivelandosi sempre più come una “scuola di pensiero scialpinistico” prima che un’organizzazione per realizzare gite in sci.
Certo è che una scuola di scialpinismo non può limitarsi alla sola attività a tavolino: quindi il perno didattico continuò ad essere quello svolto sul terreno.
Torniamo alle dimensioni. La SUCAI era un piccolo esercito, ma anche un “incubo” per gli altri scialpinisti, i non sucaini. Quando arrivavano i nostri pullman alla partenza di una gita, dove già vi erano altri malcapitati (in cerca di silenzio e di pace), spesso questi ultimi risalivano rapidamente in auto e cambiavano gita, atterriti dalla folla sucaina.
Folla che, però, si muoveva con efficacia e sempre nel pieno rispetto dei parametri di sicurezza. Per ottenere ciò, il gruppo si comportava secondo protocolli che ai “non sucaini” apparivano militareschi e forse lo erano davvero, anche se il termine va inserito in un clima sempre cordiale e di piena allegria.
In ogni caso: poche regole individuali, ma molto chiare e, soprattutto, assolutamente indiscutibili. Nessun partecipante si è mai immaginato di ribellarsi o di ammutinarsi. Pochissime (forse nessuna) sono state le esclusioni per motivi disciplinari, il che conferma che l’imprinting era ampiamente condiviso.
Per muoversi con il rispetto della sicurezza, un gruppo di tali dimensioni doveva disporre anche di efficaci protocolli collettivi. Il serpentone di duecento partecipanti rimaneva indiscutibilmente compreso fra il gruppo di apertura e quello di chiusura. Nessuno poteva superare l’apertura, né in salita né in discesa.
Come avveniva da tempo, ma ora con più determinazione, gli allievi erano divisi in gruppetti omogenei con un istruttore di riferimento (col tempo sono diventati due per gruppo). Il Direttore oscillava all’interno del serpentone, a seconda delle esigenze, e si teneva in contatto radio con apertura, chiusura e altri componenti della Direzione.
Le radio furono introdotte in SUCAI grazie alla passione di Flavio Melindo, ingegnere elettronico col balìn delle telecomunicazioni. L’introduzione avvenne già nei primi anni ’70, ma gli apparecchi che si vedevano alla fine di quel decennio erano più o meno gli stessi: grossi, pesanti e con limitata carica della batteria. Le regole per le radio erano poche e chiare: in salita si tenevano spente (per risparmiare carica) e ci si sentiva solo una volta all’ora, mentre in discesa le radio restavano sempre accese.
Nonostante le dimensioni elefantiache della SUCAI, l’organizzazione così rigida permise alla Scuola di muoversi su terreni complessi, realizzando molte gite di particolare rilievo. Spesso si trattò di traversate (sfruttando i pullman), magari con “ripello” (come si dice oggi), quindi impegnative e dove era necessario portare tutti a destinazione.
Con la primavera, date le dimensioni della Scuola, già allora iniziavano ad emergere i problemi di prenotazioni in rifugio. Ne conseguì una certa preferenza per le gite con pernottamento in baita: allora era facile trovare delle baite accessibili e in buono stato. Al giorno d’oggi è quasi impossibile ripetere quell’esperienza: le baite, se sono state ristrutturate dai proprietari, in loro assenza sono sprangate; se invece non sono state ristrutturate, oggi sono pressoché inutilizzabili. Le gite con pernottamento in baita sono risultate un’esperienza molto costruttiva: sacco a pelo, materassino, fornelletto. Anche il singolo allievo doveva imparare ad organizzarsi perché, non appoggiandosi ad un rifugio, non c’era un luogo caldo, un gestore paziente, una cucina che compensava i viveri dimenticati a casa. Al contrario il freddo notturno, la colazione col thè scaldato nel pentolino usato la sera prima per preparare la minestra, lo zaino pesante per tutto questo materiale, sono stati elementi di una scuola di vita prima ancora che di scialpinismo. Eppure l’intero serpentone ha spesso compiuto gite complesse ed anche di dislivelli ragguardevoli, pur avendo alle spalle una nottata in baita o in strutture equivalenti come i rifugi in costruzione.
A tal proposito va ricordato come la SUCAI introdusse l’uso del materassino: l’evento, oggi consolidato in tutto il mondo dell’outdoor, era allora innovativo e merita una citazione. Alcuni sucaini del periodo scoprirono un “foglio” di materiale plastico e isolante (spesso pochi centimetri) che si poteva acquistare a metri in un negozio di Via Saluzzo quasi angolo Corso Marconi. Tale negozio, di proprietà del Signor Albicocco, non esiste più da tempo. Il materassino venne chiamato per semplicità “albicocco” e anche nelle circolari ufficiali lo si indicava in tal modo. L’abitudine si consolidò a tal punto che, in alcune famiglie sucaine (come la mia…), ancor oggi si dice “prendi l’albicocco”.
Le dimensioni della scuola rimasero stazionarie sui massimi per lungo tempo, ben oltre la fase qui analizzata. Viceversa dal 2000 in poi l’intero mondo dello scialpinismo è strutturalmente cambiato: l’accesso iniziale alle gite oggi è estremamente diversificato, sia come opportunità personali (amici, guide, ecc) sia come numero di Scuole del CAI. Per tale motivo si è assistito al ridimensionamento del serpentone SUCAI, fenomeno che però ben si adegua alle nuove condizioni logistiche: oggi sarebbe impossibile prenotare un rifugio per 150-200 persone.
Mentre da allievo disponevo di scarponi in cuoio, con ganci nella patella all’altezza della caviglia, proprio in SUCAI (nella seconda metà dei ’70) vidi i primi scarponi in plastica concepiti apposta per lo scialpinismo: erano i San Marco Raid, che, nonostante lo scafo rigido, appartenevano ancora alla famiglia delle “pantofole”. Ciò nonostante con tali scarponi si realizzavano gite di tutto rispetto. Solo nel pieno degli anni ’80 giunsero sul mercato gli scarponi plastici con un’impostazione tecnica derivata da quella dello sci di discesa.
Con la stagione 1980 (Direttore Gaspare Bona) la Scuola rese obbligatorio l’uso degli ARTVA (Apparecchi di Ricerca Travolti da Valanga), che allora si chiamavano semplicemente “pips”, perché PIEPS era il nome dell’aggeggio dell’epoca (di color arancione con la fodera gialla). La Direzione si attivò per importare tali apparecchi direttamente dall’Austria. Pochi anni dopo la Scuola rese obbligatorie le pale da neve e, infine, anche le sonde, creando quello che si definisce il KIT SICUREZZA, senza il quale, al giorno d’oggi, nessun scialpinista partirebbe per una gita.
All’inizio degli anni ’80 salì alla ribalta una nuova generazione che gestirà la Scuola con un ulteriore aumento di attenzione per le performance tecniche e per l’impostazione didattica. Senza far torto a nessuno, i nomi di rilievo della prima parte del decennio coinvolgono Carlo Giorda, Pierre Giacomelli, Lorenzo Bersezio, Danilo Bongiovanni e, soprattutto, il binomio Carlo Ravetti-Guido Vindrola. Questi ultimi ricoprirono l’inconsueto ruolo di Direttori (cioè in contemporanea) nelle stagioni 1984 e 1985 (per la cronaca, Vindrola era già stato Direttore nell’82).
Nel decennio degli ’80 la Scuola realizzò imprese di notevole spessore tecnico, in particolare (ma non solo) durante le uscite di fine stagione ristrette al Secondo Corso. Proprio nel 1980 si raggiunse la vetta del Monte Bianco per l’itinerario dei Grands Mulets; nel 1981 (anno decisamente poco nevoso) si colse la “perla” dell’Aiguille de Chambeyron in Ubaye; nel 1982 si conquistò (con discesa diretta in sci) l’Aiguille d’Argentiere, nell’84 si lambì la vetta del Piz Bernina dall’Italia (salendo però il Piz Palù), nell’85 si realizzò l’accoppiata Gran Zebrù-San Matteo e, infine, nell’87 si calcarono i Domes de Miage. Altre performance restano negli annali: non si può citare tutto. Queste gite di significativo livello, sia sciistico che d’alta montagna, dimostrano che la SUCAI, in ogni epoca, ha saputo cavalcare i trend dell’intero mondo scialpinistico.
Sempre in quegli anni va segnalato un fenomeno collaterale, però molto significativo in termini culturali. Lorenzo Bersezio pubblicò il suo primo libro di itinerari scialpinistici, quello dedicato al massiccio del Monte Bianco. Le gite del Bianco divennero abituali nel nostro “giro” che, a titolo privato, iniziò a frequentare il massiccio anche in pieno inverno, come stavano facendo da un po’ i francesi: si trattava di rompere un tabù piuttosto arcigno per l’ambiente subalpino e infatti la cosa generò non pochi mugugni.
Ma l’evoluzione storica comporta anche il superamento dei preconcetti e ben presto una nuova generazione di sucaini si sguinzagliò in ripetute performance su e giù per le Alpi. A volte si trattò di raid di più giorni, a volte di imprese mirate, come la gita privata al Monte Bianco dai Grands Mulets (1982), uscita che, per eccesso di aggregazione dei partecipanti (circa 25), si trasformò praticamente in una gita
sociale sulla più alta vetta delle Alpi.
In seconda battuta va ricordato che la pubblicazione di un libro di tendenza da parte di “uno di noi” (Lorenzo non se ne abbia a male se lo abbiamo sempre considerato così…), aprì nuovi scenari editoriali per molti altri sucaini. In precedenza erano stati numerosi gli articoli pubblicati dai sucaini, ma ora si trattava di un “vero” libro con “belle” foto, testi “articolati” e “ampie” relazioni di gite. La strada era tracciata. Lo stesso Bersezio fece seguire altri volumi, ma presto arrivarono quelli di Ezio Mentigazzi (in versione “dolomitista”), di Mario Grilli (con la sua opera enciclopedica), di Carlo Crovella (seppur qualche anno dopo) e, soprattutto, venne pubblicato il libro per i 30 anni della Scuola: “Dalle Marittime al Vallese” (1982), ancora oggi un vero “must” del settore. Tale raccolta di itinerari uscì a nome SUCAI, ma gli autori furono sostanzialmente tre istruttori: Ezio Mentigazzi, Roberto Marocchino e Roberto Scala.
In quegli anni, la Scuola SUCAI si aprì al coinvolgimento femminile in ruoli tecnico-organizzativi con alcune tappe fondamentali: Mirella Malfatto fu la prima donna ad entrare nell’Organico Istruttori (1978), Elena Bollini fu la prima istruttrice a far parte della Direzione (1982), Luisella Guidoni fu la prima ad assumere il ruolo di Vice-Direttore della Scuola (1986). Non va inoltre dimenticato il significativo apporto di Paola Mazzarelli, anche lei componente della Direzione.
Alla metà del decennio ’80 maturò uno dei tanti cambi gestionali e si innescò una fase più finalizzata sulla didattica sistematica. Con la Direzione di Carlo Crovella (già da tempo nel gruppo organizzatore) fu reso strutturale il Secondo Corso, che esisteva anche in precedenza, ma che in quella fase venne organizzato ogni anno in parallelo al Primo Corso. La crescita nozionistica ed esperienziale degli allievi era garantita dalla propedeuticità dei due corsi: ci si iscriveva al Primo Corso e, dopo un paio di stagioni, si passava al Secondo con una maturazione per temi didattici e impegno tecnico.
Gli allievi del Secondo Corso vennero coinvolti in esercitazioni che si effettuavano già in SUCAI, ma in genere sporadicamente, mentre ora divennero sistematiche. Una delle esercitazione che inizialmente non suscitava grandi entusiasmo, ma che risultò poi molto gettonata, fu il pernottamento in truna con sua relativa costruzione nel pomeriggio precedente. Per pura combinazione del destino, pochissimi anni dopo, un nutrito gruppo di sucaini, impegnati a titolo privato in un raid d’alta quota nel versante svizzero del massiccio del Monte Bianco, incappò in un bivacco forzato a 3.300 metri su ghiacciaio: nonostante si fosse a fine marzo (praticamente ancora pieno inverno per l’alta quota), nessuno ebbe timore ad affrontare l’imprevisto, poiché tutti sapevano cosa fare e come farlo, grazie all’esperienza acquisita nelle esercitazioni SUCAI.
Oggi tutte le scuole di scialpinismo effettuano, praticamente ad ogni uscita, l’esercitazione di ricerca dei travolti in valanga: l’importanza di queste esercitazioni è oltre ogni discussione, ma appare un limite il fatto che la didattica esperienziale dell’intero settore sia concentrata quasi esclusivamente su questo tema, tralasciando i rischi collaterali, come appunto quello del bivacco imprevisto. Questi altri rischi, seppur meno frequenti dell’incidente da valanga, rimangono presenti in qualsiasi gita e pertanto occorre imparare ad affrontarli.
Emerge quindi un dato che, pur trattandosi di un fil rouge che attraversa l’intera storia della SUCAI, trovò in quegli anni (a metà degli ’80) uno dei momenti di particolare evidenziazione: la Scuola deve trasmettere agli allievi un approccio alla montagna incentrato su sistematicità, preparazione, serietà, studio, continuo aggiornamento. Un approccio “manageriale” più che istintivo ed empatico. A tavolino come sul terreno.
Dopo il periodo di Crovella, sul finire del decennio ’80 subentrò la Direzione De Donno, che ammorbidì il tambureggiante tenore degli anni precedenti, riportando maggior attenzione sugli aspetti conviviali, pur senza perdere di vista né gli obiettivi scialpinistici né quelli didattici, che anzi vennero onorati sempre meglio. Tra le tante performance di questa fase spicca la mitica tre giorni del 1990, dove si collegarono in traversata la Pigne d’Arolla e il Mont Blanc de Cheilon, due pregevoli chicche del Vallese.
La storia della SUCAI è sempre un continuo “dai e vai” fra diversi personaggi che forniscono il loro contributo e permettono il rilancio successivo. In tal modo la Scuola è cresciuta e si è rafforzata nel corso del tempo. L’esperienza di ieri serve per comprendere l’oggi e per progettare il domani.